RECENSIONI - GREG PREVOST: “After The Wars” (Mean Disposition/Penniman Records, 2024)
Si chiama "After The Wars" (su Mean Disposition/Penniman Records) ed è uscito il 15 luglio 2024 il quarto album solista in studio di Greg Prevost, che segue "Mississippi Murder" (2013), "Universal Vagrant" (2016) e "For These Times" (2020, album completamente acustico), tutti su Mean Disposition, tutti di altissima levatura artistica e qualitativa, un poker di opere che raccontano egregiamente come Prevost abbia voluto dare, ormai da più di 10 anni a questa parte, un taglio netto ai suoi, pur esaltanti, trascorsi garage-punk per concentrarsi su un recupero creativo e personalizzato delle fondamentali radici blues, garage, rock & roll, folk e country della musica americana del ‘900. Un’operazione certamente non nuova ma riuscitissima perché filtrata dai suddetti trascorsi e dalla sensibilità artistica di Prevost spiccatamente grezza ed essenziale, direzione ulteriormente approfondita in After The Wars attraverso 8 covers molto particolari eseguite con grande carisma e 3 sue composizioni originali tra cui la title-track After The Wars, una suite di quasi 7:30 divisa in 4 parti che indubbiamente rappresenta la parte più originale e appassionante dell’opera. Tra i blues rivisitati la celeberrima Dust My Blues (James Josea), il traditional Twelve Gates To The City (Reverend Gary Davis); poi la country song Apartment #9 (Bobby Austin, Johnny Paycheck) conosciuta soprattutto per la versione del 1966 di Tammy Wynette. Tra i ripescaggi di ballate e brani proto-punk e rock poco conosciuti il basico e ribelle Babe We’re Not Part Of Society dei misconosciuti The Church Mice da Rochester/New York inciso nel 1965 (scritto da Armand Schaubroeck, il loro leader), Traveling In The Dark (scritto da Felix Pappalardi e Gail Collins) inciso, tra gli altri, dai Mountain nel loro secondo album "Nantucket Sleighride" (Windfall Records, gennaio 1971), Learning The Game, una soffice ma amara ballata di Buddy Holly del 1960 sull’amore non corrisposto, No More Songs, l’ultima song incisa in studio dal folk-man di protesta americano Phil Ochs nel 1970 e interpretata, in modo scarno ma commovente, da Prevost con l’accompagnamento solo del pianoforte di Karl La Porta e i backing vocals di sua moglie Caroll Prevost. Il parco covers è completato dall’artista sempre con carismatiche modalità scarne ed essenziali con I Have Always Been Here Before, vecchio brano (dall’album "Gremlins Have Pictures", 1986) del santone psichedelico Roky Erickson. La vera inaspettata sorpresa del disco, come già accennato, arriva dai 7 (e più) minuti elettro-acustici della suite finale, quasi completamente strumentale, After The Wars, che attraverso seducenti, magnetiche movenze psichedeliche/free form (in grande spolvero il magnifico lavoro chitarristico di Greg Prevost oltre alla sua suadente harmonica) esprime tacitamente una fiera affermazione antibellica: sempre a sorpresa, alla fine della suite, Prevost pesca dal suo cappello di prestigiatore artistico uno stralcio della vecchia Memory Of A Free Festival di David Bowie.
Nel corso dell’intervista che mi ha gentilmente concesso, Greg ha dichiarato a riguardo: “L’album, in un certo senso, è un concept album dove i brani parlano di amore, solitudine, pace, disordini e pace. La suite conclusiva di 4 parti After The Wars (Creation/Retribution/Redemption/Zen Cats) è come un viaggio nel tempo, nel passato e nel futuro. Creation rappresenta l’inizio di tutto, Retribution è la convinzione che pace ed amore conquistano tutti e Zen Cats è come una conseguenza pacifica. Tranquillità. Sentivo poi che le liriche di Memory Of A Free Festival di David Bowie (“the sun machine is coming down and we’re going to have a party … etc …”) potevano chiudere la suite con un sentimento di felicità”. Uguale ostinata avversione dell’artista per tutte le guerre si ritrova nell’altra song di suo pugno No Hallelujah For Glory, una sorta di blues – di nuovo – elettrico dove il nostro sfoggia un vecchio sfacciato vocalismo jaggeriano: “… il messaggio è che non c’è gloria in nessuna guerra” (Greg Prevost). Stesso aggressivo copione blues nella terza song autografa Roadkill Rag, con il manico squisitamente garage di P. Morabito a esaltarci. Oltre a G.P. ai vocals, acoustic guitar e harmonica, la corposa ottima line-up di After The Wars comprende Karl LaPorta (piano), Andrea Wilfeard (vocals), Caroll Prevost (chorus), Al Keltz (pedal steel guitar), Paul Morabito (acoustic guitar, electric lead guitar), Dave Anderson (bass & drums). Come ci ha rivelato Greg nell’intervista, un album nato per essere acustico come il precedente si è arricchito man mano di preziosi ispirati contributi strumentali di fedeli musicisti amici: il risultato (affermiamo noi) non poteva essere più coinvolgente e carismatico.
Pasquale Boffoli
(pubblicato in origine su Frastuoni webmagazine)
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