RECENSIONI - VERONIKA VOSS: The Bomb Exploded Here” (EP, 2024, cooproduzione Nos records, Discordia records, Scum in trance) / di Leonardo Centola

Le cose buone devono fermentare a lungo, come il Barolo, il Parmigiano, la rabbia e le composizioni musicali. The Bomb Exploded Here” (EP 2024) è la versione rimasterizzata di “The Aladar Sessions” (1996). Nati a Taranto nel 1993, i Veronika Voss prendono il nome da un film di Fassbinder.  La formazione sonica vede:  

- Gemma Lanzo, ugola punk noise

- Gypsy Lonoce ai power chords ed ai cori  

- Claudio Vozza alle corde gravi ed ai cori,

- Vanni Sardiello ai martelli pneumatici

Nel 1996, si prendono una lunga pausa, salvo qualche sporadica apparizione. Nel 2024, rientrano in campo con The Bomb Exploded Here rimasterizzato in vinile e portato live.

Discografia:  

So What / Frantic – 7” su Ovada Records, 1995. 

I Veronika Voss sono tornati, più affilati di prima e con lo stesso sguardo minaccioso, con sei schiaffi elettrici che sposano l'urgenza espressiva del post-punk che ci piace. Nessuna pietà. Il suono è grezzo ma Ian MacKaye-anamente autentico, vero, che ti sbatte in faccia la realtà post apocalittico/industriale del nostro territorio. La produzione è magistrale. È riuscita a mantenere la sacralità estetica del lo-fi, ma a valorizzare le dinamiche sonore senza snaturarne l'essenza originale. Preparatevi alla mia cronaca di una detonazione annunciata.

Andata e ritorno con feedback nei gironi del noise (senza cintura di sicurezza)

La prima traccia dell’EP, Spermspit, non ti dà il tempo di dire “… ma che cazz’” che sei già dentro un centrifugato punk-noise che pare guidato da un batterista indemoniato con un GPS impazzito. La batteria martella con la precisione di un chirurgo sotto anfetamine, mentre la chitarra, con tanto di corde stoppate in perfetto stile Fugazi meet Godzilla, spalleggia il caos come un complice affidabile in una tempesta sonora. E poi c’è il basso. Quel basso che si muove sinuoso e strategico, facendo da collante tra i ritmi ossessivi e la voce, che è tutto tranne che prevedibile: urla, accarezza, ti prende a male parole e poi ti abbraccia. Come una ex che, però, ti conosce davvero. Lo capisci tardi. Alla fine del brano. Ormai sei nel vortice. Mò, non puoi tornare indietro. Nota di merito per il videoclip: Spermit è anche una mina visiva. Un’azione di sabotaggio contro la narrazione ottico-tradizionale. Video autodistruttivo, disturbante, geniale. Una performance che pare dire: "Non ti vogliamo piacere. Ma ci guarderai lo stesso, dannazione"

Magazine Pasta ti afferra e ti trascina in una rissa tra Thurston Moore e i Mudhoney dentro un garage tappezzato di rabbia esistenziale, sotto lo sguardo vigile di Steve Albini, ovviamente. Il ritmo è più sostenuto e, a riff taglienti come rasoi, si unisce una linea vocale che alterna melodia e aggressività, quasi schizofrenica che, dapprima, ti urla “ti amo” ed, un secondo dopo, ti sussurra dolcemente “levati di torno”. Le chitarre tirano fuori quel sapore fangoso e acido da Nirvana epoca "Bleach", quando Cobain aveva spettacolari fuzz nel cuore. Tutto suona storto al punto giusto. Magazine Pasta è il piatto forte del disagio. Consigliato alle persone a cui piace litigare con le proprie emozioni.

Shell: la tenerezza di un abbraccio con la carta vetrata. Shell non si ascolta, si subisce. È il lento strisciare di una creatura ferita che cerca riparo sotto i tuoi timpani, e ci riesce. Qui la velocità cala, ma non l’intensità: è come se i Veronika Voss ti invitassero ad una seduta di autocoscienza riscaldata dal calore delle valvole degli ampli. Il brano è il manifesto della nostalgia disperata: parte come una carezza data con un guanto in ferro, sussurra cose che sembrano dolci finché non esplodono in urla che ti ricordano perché avevi chiuso quella ca**o di porta emotiva nel ’98. I giri di chitarra sembrano inchiodarti contro i muri dell’inconscio. Shell è, insomma, un bacio coi denti sulla pelle. E sull’autostima. Non tentate di ballarlo. Tentate di capirlo. Ma anche no.

(Taking A Shine To A) Jelly Boy -I Veronika Voss non si limitano a comporre un pezzo: fanno un’esplorazione archeo-sonora nei meandri del post-rock, noise ed anche della mente umana sotto stress da delay. I tempi dispari si rincorrono come in un video game in cui gatti randagi rosa si inseguono con la voglia di evadere, dopo aver letto “Alla Linea” di Joseph Ponthus.  I layering sonori alla Shellac ti illudono di aver capito dove stia andando il brano ma, un attimo dopo, ti ritrovi in un vicolo sonoro cieco dove i Polvo litigano con gli Slint su chi ha rubato l’accordatore. Nel frattempo, un gatto molesto cammina sui pedali di una bicicletta presa in prestito dai Raveonettes, suonando meglio di tanti chitarristi da talent show. Arte pura ed al contempo sporca. Capolavoro. Un brano con battute ritmiche che capisci, forse, solo dopo mezz’ora. Non è un parcheggio libero in centro, eppure la vuoi riascoltare in loop. È il caos con criterio. E il criterio è: “facciamo quello che ci pare, ma lo sappiamo fare bene”.

Screw non entra in punta di piedi. Screw sfonda direttamente la porta con una pedata e comincia subito a martellarti il cranio con una ritmica ossessiva che pare firmata da un batterista in astinenza da sonno e caffeina. Il basso, un bulldozer. Le chitarre, abrasive. La voce ipnoticamente penetrante. Ssò cazzi. Sound diretto, brutale, senza fronzoli. È il noise rock nella sua forma più ruvida: quello che ti fa venir voglia di alzare il volume, senza ripensamenti. Se Shell è il dramma interiore, Screw è il litigio con il mondo esterno, tipo quando litighi con un citofono spento, ma lui ti risponde. Impossibile non pensare a Guy Picciotto che, dopo una vacanza in Salento e tre bottiglie di Negramaro, decide di suonare usando solo ampli rotti ed energia repressa. Un lucidissimo pugno nello stomaco dato con affetto. Un brano che non chiede attenzione: la pretende. Screw è il rumore che serve per zittire il rumore della tua anima, ma con delicatezza. Sconsigliato se hai appena finito una sessione di yoga.

Space Limbo - Chiudere un EP come The Bomb Exploded Here con un pezzo cosi' è come terminare un pogo con un abbraccio, fluttuando in una vasca di dissonante malinconia cosmica. Le chitarre non suonano, levitano. I riverberi si dilatano come il tempo nell’ultima ora di una domenica pomeriggio. Sembra che i Veronika Voss abbiano improvvisamente messo giù gli strumenti e deciso di suonare le emozioni con i delay. Un lo-fi cosmico che puzza (bene) di sogni lasciati a metà. Un delicato finale da astronauti stanchi, con il casco pieno di dubbi esistenziali, urlato col megafono, in slow motion, mentre gli ampli frusciano ancora d’amore elettrico.

Veronika Voss, pionieri del noise rock nazionale, troppo avanti per il 1996, troppo veri per il presente.

Veronika Voss  https://www.facebook.com/share/15pmnzhu1G/

Bandcamp  https://veronikavoss.bandcamp.com/album/the-bomb-exploded-here

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