CINEMA - DAVID LYNCH (1946 - 2025)


"Un sogno di oscurità e

 inquietudini”

Così David Lynch, scomparso a 78 anni per le conseguenze di un enfisema polmonare, definì “Eraserhead – la mente che cancella” (1977), la sua prima pellicola da regista, produttore, sceneggiatore e coautore delle musiche, finanziata da un premio ricevuto per un cortometraggio e trasposizione allucinata della sua esperienza di giovane regista squattrinato in un quartiere degradato di Philadelphia. Poche parole che avrebbero rappresentato il manifesto della sua intera opera cinematografica, che nell’arco di un trentennio si comporrà di dieci film (oltre a un numero imprecisato di corti e ad alcuni lavori televisivi fra cui la serie cult “Twin Peaks”). Se ogni regista si affanna a lasciare la propria “impronta” nell’immaginario cinematografico condiviso, quella tratteggiata da Lynch ricorda un universo oscuro e inquietante tanto da apparire irreale, ma nel suo sforzo di plasmarle in un’unica visione capace di contenerle entrambe, per il regista di Missoula, nel Montana, realtà e irrealtà non sono termini inconciliabili ma gradi differenti di rarefazione della stessa materia. Una materia che ci appartiene ma che giace nascosta sotto la superficie delle cose, come in un sogno surrealista tracciato su tela (dopo gli studi di Belle Arti, la pittura è stata l’altra grande passione di David Lynch), dove dalla bocca di un protagonista può spuntare un verme (“Eraserhead”), o sotto l’erba comparire insetti brulicanti (“Velluto blu”). David Lynch ha descritto come forse nessun altro la crudeltà, la perversione e l’orrore celati nelle pieghe dell’american way of life, e lo shock emotivo causato dalle sue pellicole è un incantamento difficile da spiegare e tanto meno da riassumere. Ambientazioni sociali e familiari apparentemente rassicuranti, osservate attraverso una lente deformante, dalle quali irrompono elementi visionari, fantastici, anche ripugnanti, da teatro dell’assurdo, con il suo mix di stranezze inquietanti – si pensi al John Merrick  di “Elephant Man”, un fenomeno da baraccone che discende da una delle tradizioni popolari a stelle e strisce più sentite, specie nei contesti rurali della provincia americana più profonda, il freak show, dove il grottesco e la repulsione sono la cifra – e atmosfere tenebrose, spesso contrappuntate da dialoghi di un umorismo sfuggente e lunare, oppure da improvvisate paradossali (Sailor Ripley che canta Love me tender a Lula Fortune nella scena finale di “Cuore Selvaggio”, dopo 124 minuti di deliri erotici e perversioni repellenti).


D’altra parte, tutta la panoplia di personaggi bizzarri che compare nei film di Lynch è accomunata da un destino dispari, allucinazioni borghesiane che si collocano al di fuori da qualsiasi regola scritta, come il loro autore (insieme a Peter Greenaway, l’unico dei 41 registi chiamati a raccolta per celebrare il centenario della nascita del cinema a non rispettare la regola dei 52 secondi e tre inquadrature che doveva racchiudere il proprio contributo in “Lumière and Company”, forse perché il suo cinema va contro, ogni regola), sempre alla ricerca di quel quid inesplorato dell’animo umano che lo porta come pochi altri a effigiare nei suoi lavori la rappresentazione cinematografica del discorso inconscio. Manie, figure della perversione sono altrettanti corto circuiti del regolare processo di sviluppo psichico, una tassonomia di paranoie e isterismi, di brutture e atrocità, di tic e ossessioni che ricorrono (la tenda di velluto in “Velluto blu”, “Twin Peaks” e “Strade perdute”) i primi piani estremi (il fiammifero in “Cuore selvaggio”) ma anche traumi (come quello dello stesso regista, conseguente all’insuccesso di “Dune”, in cui per la prima volta Lynch non ebbe diritto al final cut, e che gli impedì di girare film nei successivi tre anni), che poi sono la vita. E poi la critica allo star system (dalla Los Angeles descritta “Mulholland Drive”, con quel mostro raccapricciante rinchiuso nel cassonetto dietro la caffetteria dove si tengono le riunioni dell’industria cinematografica a rappresentarne l’aspetto orripilante, alla sua ultima opera, “Inland Empire”, una sorta di discesa infernale nelle strade di Hollywood), gli attori feticcio (da Laura Dern a Harry Dean Stanton), la passione per la musica e l’accento posto sul potere del sonoro, che lo spinge a comporre la maggior parte delle musiche prima del girato, dopo averne discusso col tecnico del suono Alan Splet, e con il suo compositore di riferimento, Angelo Badalamenti (che dal 1986 in poi cura le colonne sonore di tutti i lavori del regista, escluso “Inland Empire”) , e l’eco di canzoni amate e tenute in serbo, per poi inserirle al momento giusto nella pellicola giusta (come nel caso di Song to the Siren dei This Mortal Coil, in “Strade perdute”).


E poi, certo, “Twin Peaks”. Una svolta epocale nella narrazione televisiva mainstream, che anticipa di un ventennio l’attuale serialità da Netflix. Una narrazione abituata fino a quel momento alle rassicuranti e placide sit-com per famiglia, oppure ai telefilm in cui non esisteva confusione fra bene e male. Insieme a Mark Frost, David Lynch (che scrive i testi di The Nightingale, Into the night e Falling, tutti cantati da Julee Cruise) accompagna lo spettatore in una sorta di viaggio in una dimensione quasi paranormale, fra l’orrore e il perturbante, con i protagonisti che seguono schemi di linguaggio inconsueti e sconcertanti, un livello appena sotto il comprensibile, magari seduti in una stanza con i drappeggi rossi e i pavimenti disegnati a zig zag. Le storie raccontate da Lynch contengono mondi sperimentali in cui ci si trova immersi in atmosfera e sensazioni che hanno a che fare con la materia del sogno: occorre sempre una buone dose di astrazione, una comprensione più intuitiva che logica, anche nei tralicci narrativi più esplicitamente noir, alla Raymond Chandler, di “Strade perdute” e “Mulholland Drive”. Ma poi c’è anche il David Lynch di “Una storia vera”. Per certi versi, l’ideale prosecuzione di “Elephant Man”, in cui il regista americano abbandona il suo universo di paure e fobie per abbracciare una prospettiva commovente, lirica, schietta, di una purezza che procede in linea retta come la storia raccontata, e che per una volta scansa le tortuose deviazioni fatte di incubi e turbamenti. Ma forse è uno stato passeggero, e la brezza di ottimismo che sembra pervadere il regista viene spazzata via dal vento del dolore amaro dell’ultima sua opera, quell’”Island Empire” in cui Linch per la prima volta fa utilizzo del digitale, quasi a voler rendere più vivido il disorientamento spazio temporale in cui sono immersi i personaggi. Ci mancherà, David Lynch. Un artista che si è nutrito di dissonanze. Libero di percepire in modo laterale le cose che gli altri vedono dritto per dritto, e che ci ha omaggiato di monete preziose da conservare nel salvadanaio della cinematografia.

                                   Maurizio Fierro

Filmografia

Eraserhead – La mente che uccide (1977)

The Elephant Man (1980)

Dune (1984)

Velluto blu (1986)

Cuore selvaggio (1990)

Lumière and Company (1995)

Strade perdute (1996)

Una storia vera (1999)

Mulholland Drive (2001)

Inland Empire (2006)



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